Cambio climatico anche quest’anno?

 

Il 2020 è stato un anno di eventi estremi, incendi in Australia, inondazioni, invasioni di cavallette, siccità: hanno suscitato un po’ di preoccupazione e commozione, sempre e comunque a debita distanza, ma al entro della nostra attenzione c’era davvero solo la pandemia e i suoi effetti. Un anno dopo il Covid è ancora la notizia del giorno ma, nel frattempo, gli eventi climatici estremi si sono fatti molto più vicini: le piogge hanno travolto Germania, Paesi Bassi e Belgio, causando centinaia di morti e una cupola di calore  ha intrappolato l’America settentrionale, con “centri di raffreddamento” improvvisati nelle palestre.

Eppure gli incontri preparatori alla prossima COP26, in cui si dovrebbero prendere decisioni fondamentali per il futuro, danno solo segnali negativi sulla capacità dei governi di produrre politiche capaci di affrontare davvero il problema ambientale: dal fallimento di Glasgow a giugno al recentissimo nulla di fatto di Napoli.

Giorni fa Luca Mercalli (noto meteorologo e divulgatore scientifico) ha dichiarato che «anche noi diventeremo profughi (del clima)»: se dieci anni fa ha pubblicato il libro “Prepariamoci” – in cui invitava a considerare il cambio climatico un fatto che presto avrebbe cambiato le nostre vite – oggi forse ci siamo, ma siamo davvero pronti?

Quella che segue è una breve sintesi dell’intervista a Mercalli, che trovate completa qui.

I- La cupola di calore tra Usa e Canada, le alluvioni in Germania e Belgio, gli incendi. Spesso si fatica a cogliere il collegamento tra questi fenomeni così diversi. Come lo spiegherebbe a un bambino?

M- Gli spiegherei cosa è un evento estremo: qualcosa che si verifica raramente, per esempio una volta ogni secolo, o che addirittura non si è mai visto prima. I 49,6 gradi centigradi di Lytton, in Canada, non erano mai stati registrati da quando esistono le misurazioni in quella zona. In altri casi fenomeni del genere potrebbero essersi già stati visti, ma con estrema rarità. Ma gli eventi estremi possono diventare più frequenti e più intensi se riscaldiamo l’atmosfera perché c’è più energia in gioco.

I- Lei ha dichiarato che anche in Italia ben presto ci saranno i profughi climatici. Può spiegare meglio?

M- Prenderei due città simbolo della vulnerabilità al clima. Una è Genova, molto esposta ai nubifragi e alle alluvioni perché è una ristretta fascia sovrappopolata tra il mare e le montagne con torrenti che vanno in piena in un quarto d’ora e invadono l’area urbana. Un conto è avere un’alluvione grave ogni cinquant’anni, un conto è averla tutti gli anni. In futuro alcuni quartieri potrebbero dover essere abbandonati del tutto. Un’altra città fragile è Venezia, esposta all’aumento del livello del mare, dovuto a sua volta alla fusione dei ghiacciai e alla dilatazione termica delle acque (i mari, scaldandosi, aumentano di volume). Attualmente gli oceani crescono di 3,5 millimetri all’anno. Se davvero il mare aumenterà di un metro entro questo secolo, Venezia si spopolerà gradualmente. Anche le altre città lagunari, come Chioggia e Comacchio, non saranno messe meglio. Quindi potranno esserci profughi climatici della zona del Delta del Po e dalla laguna veneta.

I- A vent’anni dal G8 di Genova, torniamo a riflettere su quanto sia sbagliato il nostro modello di sviluppo

M- Il problema ambientale è complesso e riguardi tutti i saperi. Non può essere risolto con un singolo provvedimento. Purtroppo, c’è un’incredibile resistenza contro queste riflessioni. Non si vuole accettare questa realtà così chiara: la crescita infinita non è possibile in un mondo finito. Questo sì che lo capirebbe anche un bambino. Anche l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) a gennaio 2021 ha affermato che la crescita economica è il motivo scatenante dei danni ambientali e climatici. Pur non avendo fatto notizia, è una dichiarazione scientifica da parte di un organo istituzionale dell’Unione Europea. Non pretendo di avere le soluzioni pronte, perché non le ha nessuno. Se tutti però accettassimo questa verità, ci metteremmo al lavoro come risolverla, invece siamo come malati che ripetono: “Io sto benissimo!” e rifiutano di farsi visitare da un medico.

 

Parlando di possibili soluzioni, vi consigliamo leggere un recentissimo documento del Centro di Modello Nuovo Sviluppo, “Problemi ambientali e soluzioni sociali”, che esplora le connessioni tra la crisi ecologica e le soluzioni, individuali e collettive, che possono essere messe in campo.

Un’ultima considerazione: occorrerebbe innanzitutto buona informazione nei principali media italiani, che prediligono calcare sull’impatto emotivo del singolo avvenimento ma non danno, oltre alla notizia che presto viene dimenticata, informazioni che aiutino a capire fatti complessi su cui occorrerebbe ragionare in modo approfondito e sistematico. Sintesi utili che si trovano invece sempre sui giornali stranieri, come questo articolo del Guardian, che abbiamo tradotto qui sotto.

 

Le inondazioni in Europa sono legate alla crisi climatica?

Quasi certamente. Gli scienziati hanno previsto da tempo che il cambio climatico causerà condizioni meteorologiche estreme, ondate di calore, siccità e inondazioni. Le emissioni di CO2, dai gas di scarico dei motori ad altre attività umane, all’incendio delle foreste stanno riscaldando il pianeta. Mano mano che l’atmosfera si riscalda trattiene più umidità, che porta più pioggia. Tutti i luoghi che di recente hanno subito inondazioni – Germania, Belgio, Paesi Bassi, Londra, Edimburgo, Tokyo e altrove – avrebbero potuto vedere forti piogge estive anche senza la crisi climatica, ma è improbabile che gli effetti fossero così devastanti.

Ma ci sono sempre state inondazioni e ondate di calore. Qual è la prova che siamo noi a farle peggiorare?

Per prima cosa i record termici vengono battuti sempre più spesso; i sette anni nella storia mondiale sono tutti a partire dal 2014. In secondo luogo, gli scienziati hanno analisi statistiche e modelli informatici per calcolare quanto eventi meteorologici particolari siano diventati più probabili a causa dello stress che gli esseri umani hanno posto sul sistema clima. Ad esempio, le emissioni umane hanno reso almeno 150 volte più probabile la micidiale cupola di calore in Canada e Nord America del mese scorso e 600 volte più probabile l’ondata di caldo prolungata in Siberia dello scorso anno. Richard Betts, capo della ricerca sugli impatti climatici del Met Office Hadley Center, afferma questi calcoli hanno dimostrato che è errata la convinzione secondo cui “i fenomeni estremi sono sempre accaduti, quindi non dobbiamo preoccuparcene”. Non c’è ancora stato uno studio analogo per le ultime inondazioni in Europa perché l’analisi richiede diversi giorni.

Alcuni studi suggeriscono che le inondazioni potrebbero essere collegate a un’interruzione del “jet stream[1]”. È confermato?

Questa è un’incognita importante. I climatologi la considerano una delle possibili spiegazioni per il picco di alcuni dati recenti. Alla stazione metereologica di Colonia sono stati registrati 155 mm nelle 24 ore, quando il precedente massimo giornaliero della città era di 95 mm. Due settimane fa, le temperature a Lytton hanno battuto il precedente record di calore di ben 5°C. Numeri ben oltre gli scenari peggiori, che potrebbero essere il risultato di impreviste coincidenze, ma anche di effetti a catena legati ad altre perturbazioni climatiche. Una teoria che si sta esplorando è che la perdita di ghiaccio nell’Artico abbia reso la corrente a getto più irregolare, con il conseguente rallentamento delle perturbazioni più violente, che insistono nello stesso luogo per più tempo. Non c’è ancora un consenso scientifico su questo argomento, ma gli esperti sono sempre più preoccupati che il mondo possa trovarsi di fronte a un processo di estremizzazione climatica ben più grave di quanto si ipotizzasse in precedenza.

Perché così tante notizie su condizioni meteorologiche estreme sottovalutano la connessione con il cambio climatico?

I media sono legati a grandi gruppi di potere, e questo sembra essere parte di una deliberata strategia per mettere in discussione l’opinione degli esperti e ridurre quindi il consenso politico alla riduzione delle emissioni, con i cambiamenti economici strutturali che questa comporterebbe. Anche l’abitudine gioca il suo ruolo. Per decenni, i giornalisti hanno descritto le ondate di caldo come una buona notizia da illustrare con immagini di bagnanti, gelati e piscine. Un eccesso di cautela può anche dissuadere i giornalisti dall’affermare un collegamento con la crisi climatica. Mercoledì, il climatologo Ed Hawkins ha accusato la BBC di non riuscire a tenere il passo con la scienza e ha suggerito ai giornalisti di usare, da ora in poi, la frase: “Gli esperti affermano che il cambiamento climatico sta già aumentando la frequenza degli eventi meteorologici estremi e che molti singoli eventi sono stati peggiorati dal riscaldamento globale”.

[1] La corrente a getto, o “Jet Stream”, è una corrente d’aria che circonda tutto il globo al limite della troposfera (8-12 km di altezza) e raggiunge velocità anche superiori ai 250 km/h. Il Jet Stream è stato scoperto dai i piloti dei bombardieri americani della Seconda guerra mondiale, quando si sono ritrovati a viaggiare anche a 150 km in più della velocità massima dell’aereo.

 

Se biologico non basta più

 

Da un mese, dopo un lungo iter parlamentare, il Senato ha approvato (con 195 voti favorevoli, 1 contrario e 1 astenuto), il decreto legge 988, sulla tutela, sviluppo e competitività della produzione agricola, agroalimentare e acquacoltura con metodo biologico. Il provvedimento torna alla Camera per l’approvazione definitiva.

Una sensibilità dei legislatori che sembra rispondere alla nuova, diffusa, sensibilità per l’alimentazione sana che si sta diffondendo anche in Italia: nonostante (grazie?) al lockdown lo scorso anno le vendite del biologico sono aumentate, in particolare nella grande distribuzione e nei discount.

Ma è davvero una buona notizia?

Dipende. Partiamo dalla questione del prezzo e da quello che può nascondere. Pomodori biologici coltivati in nero per arrivare sugli scaffali sotto forma di passata anche a meno di 1 euro alla confezione. La storia è di tre anni fa, ma temiamo che le pratiche non siano cambiate e merita di essere ripresa.

Certamente saprete che molti prodotti biologici che arrivano nei supermercati non sono coltivati in Italia, ma sono solo confezionati qui (un sistema simile a quello già usato nel passato per prodotti realizzati in Estremo Oriente e poi rifiniti in Italia per godere dell’etichetta made in Italy: celebri tra i consumatori consapevoli gli zaini della Seven, cuciti in Indonesia e a cui veniva aggiunta una zip in piccole aziende della periferia torinese o gli slip di Armani, semilavorati cinesi su cui veniva fatta un’ultima cucitura nel biellese).

Quindi? Quindi, perché mantenga il suo significato il biologico va ridefinito in modo più preciso e non basta che in un prodotto non siano presenti prodotti chimici di sintesi, dietro ci deve essere anche lavoro sano e deve lasciare sano il terreno in cui lo si coltiva.

Ne parleremo in dettaglio in un prossimo articolo, in cui ci occuperemo di agricoltura di prossimità e sovranità alimentare,  intanto vi proponiamo di leggere il manifesto della Rete Humus, che sta proponendo una nuova definizione, non riduttiva, di come deve essere un prodotto biologico degno di questo nome.

La prossima pandemia, la siccità

 

Di questo parla l’ultimo Global Assessment Report on Disaster Risk Reduction (il rapporto annuale dell’ONU che valuta il rischio globale di catastrofi), pubblicato il 17 giugno in occasione dell’ultima giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità e in cui la mancanza di acqua (e accesso all’acqua) vengono definite la peggiore crisi globale latente, la prossima pandemia.

Negli ultimi 20 anni, secondo i dati ONU, ha colpito direttamente almeno 1,5 miliardi di persone, con un costo stimato di 124 miliardi di dollari e si prevede che la maggior parte del mondo vivrà nello stress idrico nei prossimi anni (qui i dati più in dettaglio e qui il rapporto originale, disponibile solo in inglese). Non è  difficile immaginarne le conseguenze, se si pensa che la siccità incide in modo determinante sul declino dei raccolti. E tutti dipendiamo dal cibo, anche se in modi diversi a seconda di dove ci troviamo a nascere.

Ma non c’è solo questo, in un mondo globale tutto si tiene e non si può parlare di un problema senza vedere il contesto complesso in cui si inserisce, senza leggerne le dinamiche geopolitiche[1] e le interconnessioni. Quindi partiamo dalla siccità per parlare anche di guerre per le risorse, migranti e cambio climatico, salute del suolo e desertificazione dei nostri territori.

Le conseguenze immediate (e invisibili) della siccità.

UE, FAO e World Food Program ci hanno da poco informato che, nel 2020, almeno 155 milioni di persone sono precipitate nell’insicurezza alimentare acuta a causa di conflitti, shock economici (comprese le conseguenze del COVID-19) ed eventi meteorologici estremi (qui il comunicato). Ovviamente, nel pianeta globale le crisi colpiscono prima i più deboli: basta pensare al dramma dei migranti e dei rifugiati, una questione che dopo essere stata per anni ostaggio di un dibattito politico strumentale e vergognoso, è scivolata con la pandemia nell’indifferenza delle pagine interne dei quotidiani (con qualche eccezione come il Fatto Quotidiano che, nel blog, accoglie spesso voci critiche e temi complessi ignorati dalla narrazione mainsteam).

La questione dell’acqua (e delle risorse)

Questo è un altro aspetto del problema: già alla fine del secolo scorso, con la prima guerra dell’Iraq, era chiaro che le nuove guerre (dichiarate o meno) sarebbero diventate conflitti per le risorse e tra queste, ovviamente, è centrale il controllo dell’acqua, ma il problema è molto più ampio e peggiora continuamente. Se volete approfondire la questione del rapporto geopolitico tra guerra e materie prime potete leggere questi due articoli: il primo, dell’agenzia governativa per la cooperazione internazionale, è dedicato all’impatto delle guerre per l’acqua mentre il secondo, analizza le interconnessioni tra le crisi e in particolare quelle tra estrattivismo (l’appropriazione e lo sfruttamento sistematico di risorse sempre più scarse), la crisi alimentare e il cambiamento climatico.

Ma non è tutto, in Italia l’acqua è stata la base per una mobilitazione e una richiesta di partecipazione e giustizia non diverse da quelle che avevano segnato, nel 2003, l’opposizione alla seconda invasione dell’Iraq. L’acqua come bene comune, come diritto di tutti da difendere e conservare anche per le future generazioni è stata un vero movimento dal basso, con cui molti giovani si sono affacciati alla politica attiva e molti adulti ci sono tornati. Un referendum vinto, il primo di un processo che aveva l’obiettivo di legare politicamente le mani alle multinazionali e al loro sfruttamento metodico del pianeta. Purtroppo, speranze disattese e voci inascoltate, come quelle arcobaleno che in piazza, 10 anni prima, avevano inutilmente chiesto a gran forza la pace e, sempre sul Fatto Quotidiano della scorsa settimana, un interessante articolo ci racconta dove siamo a dieci anni dalla domenica in cui abbiamo festeggiato la vittoria del movimento per l’acqua pubblica.

La desertificazione, anche in casa nostra.

Già tre anni fa, in un’intervista in occasione della giornata mondiale del 2018, Luca Mercalli ci ricordava che l’Italia è a rischio desertificazione: la Pianura Padana potrebbe diventare come il Pakistan e la Sicilia un deserto africano da qui a cento anni, se non si applicano gli impegni dell’Accordo sul clima. “La temperatura globale – spiegava Mercalli – è aumentata di circa un grado nell’ultimo secolo e di 1,5 gradi in Europa occidentale e nel Mediterraneo. L’aumento delle temperature entro la fine del secolo potrebbe arrivare fino a 5 gradi in più”. La buona notizia, ci diceva, è che “possiamo ancora contenerne le conseguenze se agiamo subito” e, curiosamente, concludeva che “non sarà facile come assumere un vaccino, ma è come mettersi a dieta: serve un investimento di responsabilità, costanza e volontà”. Ovviamente non si sta facendo molto e il Covid, sempre lui ☹, ha fatto passare sullo sfondo anche la questione climatica, che sembrava aver finalmente risvegliato l’attenzione pubblica.

Non solo caldo o mancanza d’acqua, ma di vita nel suolo.

Attenzione però, desertificazione non significa solo alla siccità o aumento delle temperature medie ma a un processo più complesso, legato ai metodi agricoli industriali: da decenni ormai per coltivare si libera il territorio da piante, insetti, animali, si irreggimentano i corsi d’acqua, si sfrutta il terreno. Che deve essere continuamente arricchito di sostanze nutritive che ne alterano l’equilibrio, mentre le coltivazioni sono protette da pesticidi e altri inquinanti.

Un ciclo che nel tempo ha mutato  irreversibilmente le condizioni del suolo dal punto di vista della fertilità e, oggi, la Pianura Padana è praticamente un deserto in cui, senza intervento dell’uomo, non potrebbe crescere nulla. Su questo tema c’è un rapporto molto dettagliato del IPCC (il panel internazionale che fa da consulente dei governi sul cambiamento climatico) e di cui potete trovare una breve sintesi in italiano, mentre il rapporto completo, in inglese, si scarica qui.

 

[1]  Karl Polanyi, famoso economista ed antropologo, già alla fine degli anni ’50 parlava della difficoltà della “libertà in una società complessa”: faceva riferimento allora, agli Stati Uniti, ma la globalizzazione si è ormai diffusa ovunque e, oggi, siamo tutti parte delle catene lunghe dell’economia mondializzata e, quindi, dell’ingiustizia diffusa che questa determina.

NBT e forbici genetiche, vale la pena usarle?

 

In Europa degli OGM e dell’agricoltura transgenica non ci siamo mai davvero fidati, ma ora sono arrivate le NBT (New Breeding Techniques), nuove tecniche di ingegneria genetica di cui, ci dicono, non dobbiamo avere paura. Sono la cisgenesi, l’inserimento di frammenti di DNA portatori di determinate, volute caratteristiche proveniente da organismi della stessa specie (a differenza della transgenesi in cui il gene introdotto proviene da una specie completamente diversa) e il gene editing (o genome editing) che utilizza forbici genetiche come le CRISPR-Cas che, inducendo nel DNA tagli che vengono poi riparati, consentono di modificare in maniere mirata specifici geni.

In particolare, il gene editing è una tecnica di ampia portata e facile da usare che può essere utilizzata in medicina e in vari settori, incluso l’agro-biotech, ma anche da biohacker e dall’industria militare. Un recente rapporto di Greenpeace mette in guardia sul fatto che queste tecniche potrebbero aumentare gli effetti negativi dell’agroindustriale su natura, animali e persone, ma anche trasformare l’ambiente e noi stessi (attraverso il cibo che mangiamo) in un gigantesco esperimento di ingegneria genetica con esiti sconosciuti e potenzialmente irreversibili. Il gene editing, infatti, consente di trasferire il processo di ingegneria genetica dalle controllate condizioni del laboratorio ai campi e agli allevamenti, convertendo l’ambiente in un laboratorio a cielo aperto.

Inoltre, a gennaio, nonostante la Corte Europea abbia già deciso nel 2108 che queste nuove tecniche devono seguire le regolamentazioni che disciplinano gli OGM, in Commissione Agricoltura della Camera è stato bloccato un tentativo di farli autorizzare scavalcando le normative europee. Se fosse stato approvato agricoltori, rivenditori e consumatori non avrebbero più potuto riconoscere i prodotti NBT come accade per gli OGM e, quindi, non avrebbero avuto possibilità di scegliere.

Non ci stupisce che, complice la pandemia che ha consentito alle grandi multinazionali della industria farmaceutica di tornare a giocare un ruolo “positivo” nella geopolitica globale, queste spingano per imporre tecniche potenzialmente rischiose e dagli effetti non prevedibili in ogni ambito: ma se, come accade con in vaccini, in una situazione di emergenza si può anche scegliere di correre un rischio imprevisto a fronte di un beneficio probabile, questo non ha senso in ambiti come quello agricolo in cui il rischio è di tutti e il beneficio è il profitto economico di chi controlla il mercato.

De siete interessati a saperne di più qui trovate un bell’articolo di Daniela Conti che spiega in modo chiaro ed esaustivo cos’è e a cosa serve l’editing genomico.

Il dilemma dell’onnivoro

Il dilemma cui fa riferimento il titolo è al centro di un bel libro di Michael Pollan, uscito in Italia più di dieci anni fa e che ebbe grande diffusione perché affrontava il problema di fondo del nostro sistema alimentare: le sue conseguenze sulla nostra salute e su quella del pianeta. Un dilemma che, nel nostro piccolo, abbiamo dovuto affrontare anche noi e che ci ha portato sì ad introdurre in Bottega carne, pesce e salumi, ma secondo criteri molto precisi: prodotti base, di filiera corta o cortissima e a produzione naturale.

Perché questa scelta? Proviamo a riassumerne brevemente le ragioni, che sono tante, tutte importanti e tutte da approfondire, perché l’alimentazione – soprattutto quella a base di carne – è responsabile di molti problemi, per noi e per il pianeta. Infatti, se è vero che le proteine animali sono presenti nell’alimentazione umana da moltissimo tempo è anche vero che sino a tempi molto recenti i prodotti di origine animale, a parte il latte, hanno sempre rappresentato un consumo occasionale, un lusso: erano il cibo della festa, dei pranzi importanti, il peccato di gola dei ricchi che, ovviamente, pagavano i loro eccessi con la gotta. Forse non lo sapete ma in Europa, almeno fino alla metà dell’800, i bovini erano per lo più allevati per il traino agricolo e solo l’urbanizzazione fece sì che, con l’inizio del ’900, l’allevamento per l’alimentazione (latte e carne) arrivasse a valere per circa la metà dell’intera produzione agricola.

I poveri comunque continuavano a mangiare per lo più legumi (la famosa dieta mediterranea) e solo con il secondo dopoguerra la carne è diventata un consumo “di massa”, grazie al boom economico e alla diffusione del potere d’acquisto nella classe operaia. I baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono stati cresciuti con il mito della fettina e, secondo la FAO, tra il 1970 e il 1990 il consumo mondiale di carne è cresciuto del 50%, anche grazie all’abbattimento dei costi legati all’allevamento industriale e, soprattutto, ai sussidi statali.

Quello che è accaduto in Italia lo potete vedere bene dal grafico qui a fianco – che analizza i consumi pro capite degli ultimi 150 anni – un aumento non è diverso da quello registrato negli altri paesi occidentali. Cui si è inoltre affiancata negli ultimi vent’anni la diffusione dell’uso della carne carne rossa in paesi come Cina e India, che hanno enormi potenziali di consumo (e quindi di ulteriore impatto ambientale).

Se vi interessa approfondire come si sono evolute le abitudini alimentari con l’industrializzazione potete leggere il Rapporto Coop Un secolo d’Italia e questo articolo che ricostruisce nel dettaglio come è cambiato nel tempo – purtroppo in peggio –  il nostro modo di mangiare. Inoltre potete anche guardare questo documentario, recentemente realizzato da RAI3.

Da tempo ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso del cibo e se i più poveri temono ancora la fame, nei paesi cosiddetti sviluppati si soffre di troppa abbondanza e il consumo eccessivo di carne porta a un maggior rischio di patologie quali cardiopatie, diabete e alcuni tipi di tumori.

Ma perché la carne è così dannosa? Per tanti motivi, primo fra tutti il fatto che oggi sul pianeta ci sono costantemente 25 miliardi di animali d’allevamento (circa 70 miliardi è il numero di quelli uccisi nel corso di un anno). Sono polli, maiali, bovini, ovini, conigli, tacchini cresciuti prevalentemente nei cosiddetti allevamenti intensivi. Gli animali, ammassati a migliaia in enormi capannoni e recinti, non vengono nutriti con erba o fieno ma con cereali e soia (spesso OGM), che ne accelerano l’aumento di peso. Questo porta a un dominio dalle monocolture per la produzione di mangimi, che rendono gli ecosistemi meno resilienti perché ne distruggono la biodiversità e richiedono metodi di coltivazione basati sull’uso di pesticidi e fertilizzanti di origine fossile. Insomma, l’agricoltura legata alla produzione della carne ha effetti ambientali devastanti.

Inoltre, a causa di come sono nutriti e delle cattive condizioni igieniche e di vita la maggior parte di questi animali, in particolare i bovini, ha gravi problemi di salute tenuti sotto controllo con gli antibiotici. Sostanze usate anche per accelerarne la crescita, in un uso smodato che ha determinato fenomeni di antibiotico-resistenza che stiamo già sperimentando sulla nostra salute.

Insomma, da qualsiasi parte lo si prenda il problema dell’iperconsumo di carne è una questione complessa e preoccupante: dobbiamo pensare seriamente come, da consumatori, si possa modificare i nostri consumi alimentari e fare scelte più giuste per l’ambiente, per la nostra salute e per una più equa distribuzione delle risorse.

Questo ci porta ad un altro aspetto del problema, quello economico: qual è il prezzo giusto della carne? A questo prova a rispondere uno studio di SlowFood che analizza i costi nascosti della carne, cioè le esternalità negative, innanzitutto economiche, che non paghiamo direttamente facendo la spesa ma in altre modalità.

Insomma, anche da questi pochi cenni ci sembra di poter dire che il dilemma dell’onnivoro possa avere una sola risposta: carne sì, se si vuole, ma meno, meglio e più vicino!

LATTE AL SOLE: la solidarietà in quattro semplici passaggi

 

C’è una nuova, buona notizia, tra i Prodotti Insieme oggi trovate “Latte al Sole”. Un progetto che nasce dalla collaborazione tra  l’Emporio Solidale il Sole di Casalecchio di Reno, l’Istituto Agrario Serpieri, la Fondazione dal Monte e la nostra Bottega. In pratica:

  1. l’Emporio acquista il latte da agricoltori locali
  2. gli studenti dell’Istituto Serpieri provvedono alla trasformazione del latte in yogurt, panna cotta, stracchino e altri formaggi
  3. una parte dei prodotti viene messa gratuitamente a disposizione dell’Emporio Solidale per le famiglie in difficoltà
  4. un’altra parte viene venduta in Bottega e, con il ricavato, consente di acquistare il latte per la lavorazione successiva.

 

Una filiera solidale e sostenibile nata dalla collaborazione di tutti e in soli quattro passaggi. Un progetto che supporta i piccoli agricoltori locali, forma gli studenti e li avvicina al mondo della solidarietà, dà lavoro ai ragazzi e alle ragazze del nostro laboratorio socio-occupazionale e mette prodotti di qualità a disposizione di famiglie in difficoltà. Un circuito che, grazie ai vostri acquisti, ha infine continuità e autosufficienza economica. Se volete saperne di più qui c’è un video che vi fa conoscere chi c’è dietro la filiera!

Insomma, i prodotti “Latte al Sole” sono di qualità, freschissimi e buoni e, soprattutto, sono il risultato di un po’ di creatività e voglia di fare. Una prova di cosa si può fare quando cambiamo, scegliendolo insieme, come viene prodotto e acquistato quello che portiamo sulla nostra tavola.

Ed ecco i primi i prodotti disponibili:

Panna cotta ai frutti di bosco 200g
Panna cotta al caffè 200g
Panna cotta al naturale 200g
Panna cotta cuore di caffè 200g
Panna cotta cuore di cioccolato 200g
Yogurt ai cereali 200g
Yogurt ai frutti di bosco 200g
Yogurt al caffè 200g
Yogurt ai cereali 200g
Yogurt alla pesca 200g
Yogurt al naturale 200g

Un progetto di arance e solidarietà dalla Calabria al Rojava

“Vogliamo partire dalla Terra e dall’autodeterminazione di chi la lavora. Vogliamo farlo rispettando la natura e l’ambiente e in modo collettivo, perché lavorare insieme è il modo migliore per consolidare rapporti umani veri e profondi, fondati su rispetto, reciprocità e dignità”

SOS Rosarno ha una ormai lunga storia alle spalle: da anni lavora nella piana di Gioia Tauro, la parte più povera d’Italia in cui crescono disoccupazione ed emigrazione e, contemporaneamente, affluiscono migliaia di persone dall’Africa e dell’Est. Perché l’agroindustria alimentare ha fame di chi è clandestino e trova nel lavoro nero l’unica possibilità di sopravvivenza. La cooperativa è partita così, mettendo insieme i piccoli contadini (i deboli di sempre) con i nuovi deboli dell’economia globale perché scoprano che insieme  si può rispondere alla sofferenza costruendo speranza e opportunità.

Un impegno di anni, eppure il loro giro economico è ancora molto piccolo e, quindi, la capacità di incidere sul territorio: lo scorso anno, a fronte di 2 milioni di kg di arance e clementine bio prodotti nella zona, con il loro fatturato (230 mila chili) hanno assorbito solo l’8-10% del prodotto disponibile. Numeri magari sufficienti per sostenere la cooperativa ma troppo piccoli costruire un’alternativa reale.

In questo momento, poi, la situazione è più complicata: i magazzini sono fermi e i buyers della grande distribuzione vanno dove il costo della manodopera, e gli standard qualitativi, sono più bassi. In Marocco, che è il primo produttore al mondo di clementine, la manodopera legalizzata costa da 5 a 10 euro al giorno e dal porto di Tangeri partono container per tutti quei paesi dell’est che una volta si approvvigionavano esclusivamente dalla Calabria e dal sud della Basilicata. Le clementine sulle piante però non possono rimanere e, se non ci sono altri sbocchi, l’unica strada è svendere all’industria alimentare. Che le paga 3 cent/kg, quando produrle 1costa da 15 a 25 cent/kg e la raccolta, a 55 € al giorno a lavoratore, incide per altri 13/kg.

“Però quando la cooperativa a cui commissioniamo la lavorazione e grazie alla quale esistiamo ci dice che senza Sos Rosarno avrebbero già chiuso, se il sostegno aumenta di anno in anno, se riusciamo a creare più sinergie, a fare sempre la nostra parte, significa che facciamo bene a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, che stiamo lavorando bene e siamo sulla strada giusta.”

Da poco hanno anche avviato la campagna “Arance SOS Rosarno 2021” per sostenere la sanità della Siria del nord est: arance, limoni e clementine biologiche vendute per finanziare il progetto di solidarietà per il Rojava assediato e sostenerne il sistema sanitario. Dopo l’invasione da parte della Turchia dell’ottobre 2019, c’è una sempre più grave emergenza umanitaria. L’autogoverno del Rojava – un progetto di confederalismo democratico ispirato ai principi dell’ecologia sociale, del femminismo, della multiculturalità e dell’economia solidale – paga infatti l’ostilità e l’embargo della Turchia e dell’Iraq: uno scenario difficile e incerto con cui si misura un progetto di democrazia diretta che, mentre deve ancora difendersi dall’Isis, deve assicurare condizioni di vita accettabili e la ricostruzione di un sistema sanitario adeguato alle esigenze di una popolazione già stremata da una lunga guerra.

Insomma, per SOS Rosarno il progetto economico, quello sociale e quello politico sono strettamente intrecciati: per conoscerli meglio basta andare sul sito della cooperativa “Mani e Terra” sosrosarno.orgfacebook.sos-rosarno

La Bottega Volante, buona anche per chi la fa

 

Siamo orgogliosi di presentarvi le persone che rendono possibile il nostro progetto, i ragazzi e le ragazze del laboratorio socio-occupazionale di Sasso Marconi: la loro attività è il vero cuore della Bottega, il suo primo obiettivo, anche se è quello che non si vede mai! Infatti, come Scoiattolo siamo da sempre impegnati nel miglioramento della qualità della vita nel territorio in cui operiamo e questo, per una cooperativa sociale, significa aiutare le persone più deboli a superare l’emarginazione in cui sono relegate.

Siamo anche consapevoli della crisi sociale ed economica con cui si confronta la nostra società e abbiamo scelto di contribuire  alla costruzione di nuova economia, che rimetta al centro le persone e renda concreta una cultura di sostenibilità, responsabilità e reciprocità. Insomma, la Bottega Volante non risponde solo al bisogno di nuovi modi di consumo, più naturali e sostenibili, ma anche alla responsabilità che tutti abbiamo verso alla comunità di cui facciamo parte.

Così il lavoro che creiamo con i vostri acquisti non è solo funzionale alla futura autonomia economica di chi ci lavora ma, prima di tutto, apre uno spazio di scoperta e messa in opera delle proprie capacità per chi  non ha ancora possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Uno spazio in recuperare confidenza di sé, maturare, socializzare, condividere, integrarsi. Partecipare alle attività del laboratorio, con il sostegno degli educatori della cooperativa, è un percorso che apre alla relazione con gli altri, al rispetto di chi lavora con noi, alla responsabilità di quello che si fa.

Sono lavori semplici ma veri, perché l’educazione e la formazione al lavoro devono avvenire in un contesto reale: i nostri ragazzi, quando preparano le cassette della Bottega, sanno di fare qualcosa che sarà utile e gradito a qualcuno, sanno di maneggiare prodotti naturali e buoni, hanno imparato a riconoscerli e a conoscerne le stagionalità, ad apprezzarli, si sentono parte di un processo che ha un riscontro culturale e sociale e, quindi, valorizza tutti quelli che vi partecipano.

In breve, dietro il lavoro di un laboratorio socio occupazionale ci sono:

  • espressione dell’unicità, della creatività e della dignità di ciascuno, da cui discendono pari opportunità e doveri
  • riconoscimento degli altri (delle differenze) come strumento di “auto-scoperta” delle proprie capacità e responsabilità
  • disponibilità alla relazione, all’accoglienza e al dialogo
  • rifiuto della competizione e recupero di una cultura di collaborazione, dono e mutualità
  • condivisione dell’impegno quotidiano in un contesto di relazioni “calde”, capaci di avviare processi di apprendimento e cambiamento individuale e di gruppo.
  • senso di appartenenza alla comunità e consapevolezza di contribuire al benessere del territorio e delle persone che ci vivono.

Una buona notizia: la riscoperta del cibo locale

 

Dopo essere diminuito per decenni, il numero delle piccole e piccolissime aziende agricole sta di nuovo aumentando: spesso sono gestite da giovani, che hanno scelto di tornare alla terra e impegnandosi per la qualità di quello che producono. Amano quello che fanno, ma hanno anche bisogno di guadagnarsi da vivere, mentre chi sceglie questo tipo di prodotti deve poterli avere a prezzi ragionevoli.

Per questo è nata la Bottega Volante, una prova di come si possa collaborare tra produttori, intermediari e acquirenti per portare i prodotti locali sulle tavole di chi abita il territorio. Un esperimento importante alla luce della profonda differenza che c’è tra il cibo prodotto localmente da piccoli produttori e quello industriale e che si può  riassumere in dieci punti:

  1. I prodotti sono più buoni. Frutta e verdura vengono raccolte quando sono mature e i trasformati lavorati artigianalmente e in piccole quantità. Poiché non devono essere conservati e trasportati a grandi distanze non devono essere “manipolati per sembrare perfetti” quando arrivano sul banco del supermercato. Comprando locale scopri varietà nuove o semplicemente dimenticati dalle grandi catene, e puoi apprezzare e il piacere di poter consumare nel momento migliore quello che la natura offre in ogni stagione.
  2. E sono anche più freschi. Se il passaggio dalla produzione al piatto è veloce, e i prodotti locali spesso sono acquistati entro 24 ore dalla raccolta, gli alimenti perdono meno sostanze nutritive e non hanno bisogno di essere trattati perché si conservino per giorni o settimane in celle frigorifere, come succede per i prodotti della grande distribuzione.
  3. I produttori preservano la biodiversità. Nel sistema agro-industriale vengono utilizzate solo quelle varietà che crescono rapidamente e in modo uniforme, resistono al raccolto e all’imballaggio meccanizzato e durano a lungo sugli scaffali. I piccoli produttori, al contrario, coltivano o allevano varietà e specie diverse per avere una stagione produttiva più lunga e preservare la ricchezza naturale dei terreni.
  4. Il cibo locale è sano. I produttori locali non sono fornitori distanti e anonimi e sono chiamati a rispondere direttamente ai loro consumatori. Un pomodoro maturato sulla pianta a pochi chilometri da casa tua è molto meglio per la tua salute di uno che arriva magari da 1.000 chilometri di distanza, è stato raccolto acerbo e poi fatto maturare in modo forzato.
  5. Comprare locale crea lavoro locale. Quando le grandi imprese dominano il mercato le aziende locali faticano a sopravvivere. Sostenerle vuol dire aiutare i piccoli produttori a sottrarsi alle politiche al ribasso dei grossisti e aiuta a diffondere pratiche produttive sostenibili che sono possibili solo a scala ridotta.
  6. E sostiene l’economia del territorio. Quando le aziende non appartengono al territorio, il denaro lascia la comunità ad ogni transazione: secondo uno studio della New Economics Foundation un euro speso in un’azienda locale tende a rimanere investito in loco, e genera un reddito doppio rispetto a quello dato a un’azienda che ha sede altrove.
  7. Il cibo locale ritesse la comunità. Quando acquisti localmente, ripristini la storica connessione tra chi produce e chi consuma. Sapere chi produce quello di cui ti nutri ti fa apprezzare il luogo in cui vivi e le persone che lo abitano. In molti casi, ti aiuta a ritrovare il contatto con la natura e ti motiva a difendere un bene comune fondamentale come il terreno agricolo.
  8. Aiuta a proteggere il territorio. Far sì che le aree agricole non siano abbandonate impedisce alle città di espandersi troppo e troppo velocemente, sottraendo la terra al controllo della comunità. Sostenere i fornitori locali è uno degli strumenti più immediati per difendere il territorio: se i produttori guadagnano abbastanza con la commercializzazione locale, è più difficile che accetino di vendere terreni agricoli per l’espansione urbanistica o alle agro-industrie.
  9. Non ha costi nascosti. Gli economisti le chiamano “esternalità negative” e sono tutti che quei costi che, come cittadini, paghiamo per la costruzione e manutenzione delle infrastrutture necessarie alle industrie per vendere in grandi quantità e a grande distanza. Le filiere corte richiedono meno servizi, quindi comprare localmente aiuta anche a diminuire le tasse!
  10. Mangiare locale difende l’ambiente. Le piccole fattorie garantiscono fondamentali servizi ecosistemici: conservano il suolo fertile, proteggono le fonti d’acqua e sequestrano il carbonio dall’atmosfera. L’ambiente agricolo è un mosaico di campi, prati, boschi, stagni che sono l’habitat per la fauna selvatica nelle nostre comunità. Poi, è ovvio, hanno un impatto minimo rispetto alle enormi agro-industrie monocolturali che usano pesticidi e fertilizzanti di origine fossile. Inoltre, le consegne chiedono meno carburante, generano meno gas serra e riducono gli sprechi legati al trasporto e allo stoccaggio.

E per finire, mangiare locale è un investimento per il futuro. Sostenendo gli agricoltori locali contribuisci a far sì che negli anni a venire ci siano ancora aziende agricole nella tua comunità. Un fatto fondamentale a fronte di un futuro energetico incerto, visto che ad oggi la nostra alimentazione dipende quasi interamente dai combustibili fossili necessari per produrre, confezionare, distribuire e conservare il cibo. Se non difendiamo la possibilità di nutrirci con quello che produce il nostro territorio, le generazioni future potrebbero essere davvero nei guai.

Ecco l’olio per ogni giorno, extravergine e biologico.

L’olio extravergine di oliva è la base e l’essenza, salutare e indispensabile, della cucina italiana.

Questo è biologico e non filtrato, ottenuto da molitura a freddo con tecniche meccaniche, viene prodotto dalla Famiglia Notarangelo in un uliveto del Parco Nazionale del Gargano che guarda il mare.

Fa parte del nostro progetto “prodotti insieme” e puoi averlo a 8,50 euro al litro (anziché 9,00): ti basta valutare quanto olio serve alla tua famiglia nei prossimi mesi e aderire all’accordo andando sulla scheda prodotto della latta da 3 litri o della latta da 5 litri.

Puoi farlo entro il 31.01.2021 prenotando tra i 20 e i 50 litri e il tuo sarà un impegno e non un acquisto anticipato: pagherai un po’ alla volta, man mano che ti consegniamo le latte. Dopo ogni ordine il sistema calcola quanto hai ancora promesso di acquistare e manterrà invariati prezzo e disponibilità fino a fine ottobre 2021.

Insomma, comprando assieme sosteniamo il produttore,  condividiamo un prezzo migliore e, non ultimo, riduciamo sprechi e impatto dei trasporti.