Se biologico non basta più

 

Da un mese, dopo un lungo iter parlamentare, il Senato ha approvato (con 195 voti favorevoli, 1 contrario e 1 astenuto), il decreto legge 988, sulla tutela, sviluppo e competitività della produzione agricola, agroalimentare e acquacoltura con metodo biologico. Il provvedimento torna alla Camera per l’approvazione definitiva.

Una sensibilità dei legislatori che sembra rispondere alla nuova, diffusa, sensibilità per l’alimentazione sana che si sta diffondendo anche in Italia: nonostante (grazie?) al lockdown lo scorso anno le vendite del biologico sono aumentate, in particolare nella grande distribuzione e nei discount.

Ma è davvero una buona notizia?

Dipende. Partiamo dalla questione del prezzo e da quello che può nascondere. Pomodori biologici coltivati in nero per arrivare sugli scaffali sotto forma di passata anche a meno di 1 euro alla confezione. La storia è di tre anni fa, ma temiamo che le pratiche non siano cambiate e merita di essere ripresa.

Certamente saprete che molti prodotti biologici che arrivano nei supermercati non sono coltivati in Italia, ma sono solo confezionati qui (un sistema simile a quello già usato nel passato per prodotti realizzati in Estremo Oriente e poi rifiniti in Italia per godere dell’etichetta made in Italy: celebri tra i consumatori consapevoli gli zaini della Seven, cuciti in Indonesia e a cui veniva aggiunta una zip in piccole aziende della periferia torinese o gli slip di Armani, semilavorati cinesi su cui veniva fatta un’ultima cucitura nel biellese).

Quindi? Quindi, perché mantenga il suo significato il biologico va ridefinito in modo più preciso e non basta che in un prodotto non siano presenti prodotti chimici di sintesi, dietro ci deve essere anche lavoro sano e deve lasciare sano il terreno in cui lo si coltiva.

Ne parleremo in dettaglio in un prossimo articolo, in cui ci occuperemo di agricoltura di prossimità e sovranità alimentare,  intanto vi proponiamo di leggere il manifesto della Rete Humus, che sta proponendo una nuova definizione, non riduttiva, di come deve essere un prodotto biologico degno di questo nome.

La prossima pandemia, la siccità

 

Di questo parla l’ultimo Global Assessment Report on Disaster Risk Reduction (il rapporto annuale dell’ONU che valuta il rischio globale di catastrofi), pubblicato il 17 giugno in occasione dell’ultima giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità e in cui la mancanza di acqua (e accesso all’acqua) vengono definite la peggiore crisi globale latente, la prossima pandemia.

Negli ultimi 20 anni, secondo i dati ONU, ha colpito direttamente almeno 1,5 miliardi di persone, con un costo stimato di 124 miliardi di dollari e si prevede che la maggior parte del mondo vivrà nello stress idrico nei prossimi anni (qui i dati più in dettaglio e qui il rapporto originale, disponibile solo in inglese). Non è  difficile immaginarne le conseguenze, se si pensa che la siccità incide in modo determinante sul declino dei raccolti. E tutti dipendiamo dal cibo, anche se in modi diversi a seconda di dove ci troviamo a nascere.

Ma non c’è solo questo, in un mondo globale tutto si tiene e non si può parlare di un problema senza vedere il contesto complesso in cui si inserisce, senza leggerne le dinamiche geopolitiche[1] e le interconnessioni. Quindi partiamo dalla siccità per parlare anche di guerre per le risorse, migranti e cambio climatico, salute del suolo e desertificazione dei nostri territori.

Le conseguenze immediate (e invisibili) della siccità.

UE, FAO e World Food Program ci hanno da poco informato che, nel 2020, almeno 155 milioni di persone sono precipitate nell’insicurezza alimentare acuta a causa di conflitti, shock economici (comprese le conseguenze del COVID-19) ed eventi meteorologici estremi (qui il comunicato). Ovviamente, nel pianeta globale le crisi colpiscono prima i più deboli: basta pensare al dramma dei migranti e dei rifugiati, una questione che dopo essere stata per anni ostaggio di un dibattito politico strumentale e vergognoso, è scivolata con la pandemia nell’indifferenza delle pagine interne dei quotidiani (con qualche eccezione come il Fatto Quotidiano che, nel blog, accoglie spesso voci critiche e temi complessi ignorati dalla narrazione mainsteam).

La questione dell’acqua (e delle risorse)

Questo è un altro aspetto del problema: già alla fine del secolo scorso, con la prima guerra dell’Iraq, era chiaro che le nuove guerre (dichiarate o meno) sarebbero diventate conflitti per le risorse e tra queste, ovviamente, è centrale il controllo dell’acqua, ma il problema è molto più ampio e peggiora continuamente. Se volete approfondire la questione del rapporto geopolitico tra guerra e materie prime potete leggere questi due articoli: il primo, dell’agenzia governativa per la cooperazione internazionale, è dedicato all’impatto delle guerre per l’acqua mentre il secondo, analizza le interconnessioni tra le crisi e in particolare quelle tra estrattivismo (l’appropriazione e lo sfruttamento sistematico di risorse sempre più scarse), la crisi alimentare e il cambiamento climatico.

Ma non è tutto, in Italia l’acqua è stata la base per una mobilitazione e una richiesta di partecipazione e giustizia non diverse da quelle che avevano segnato, nel 2003, l’opposizione alla seconda invasione dell’Iraq. L’acqua come bene comune, come diritto di tutti da difendere e conservare anche per le future generazioni è stata un vero movimento dal basso, con cui molti giovani si sono affacciati alla politica attiva e molti adulti ci sono tornati. Un referendum vinto, il primo di un processo che aveva l’obiettivo di legare politicamente le mani alle multinazionali e al loro sfruttamento metodico del pianeta. Purtroppo, speranze disattese e voci inascoltate, come quelle arcobaleno che in piazza, 10 anni prima, avevano inutilmente chiesto a gran forza la pace e, sempre sul Fatto Quotidiano della scorsa settimana, un interessante articolo ci racconta dove siamo a dieci anni dalla domenica in cui abbiamo festeggiato la vittoria del movimento per l’acqua pubblica.

La desertificazione, anche in casa nostra.

Già tre anni fa, in un’intervista in occasione della giornata mondiale del 2018, Luca Mercalli ci ricordava che l’Italia è a rischio desertificazione: la Pianura Padana potrebbe diventare come il Pakistan e la Sicilia un deserto africano da qui a cento anni, se non si applicano gli impegni dell’Accordo sul clima. “La temperatura globale – spiegava Mercalli – è aumentata di circa un grado nell’ultimo secolo e di 1,5 gradi in Europa occidentale e nel Mediterraneo. L’aumento delle temperature entro la fine del secolo potrebbe arrivare fino a 5 gradi in più”. La buona notizia, ci diceva, è che “possiamo ancora contenerne le conseguenze se agiamo subito” e, curiosamente, concludeva che “non sarà facile come assumere un vaccino, ma è come mettersi a dieta: serve un investimento di responsabilità, costanza e volontà”. Ovviamente non si sta facendo molto e il Covid, sempre lui ☹, ha fatto passare sullo sfondo anche la questione climatica, che sembrava aver finalmente risvegliato l’attenzione pubblica.

Non solo caldo o mancanza d’acqua, ma di vita nel suolo.

Attenzione però, desertificazione non significa solo alla siccità o aumento delle temperature medie ma a un processo più complesso, legato ai metodi agricoli industriali: da decenni ormai per coltivare si libera il territorio da piante, insetti, animali, si irreggimentano i corsi d’acqua, si sfrutta il terreno. Che deve essere continuamente arricchito di sostanze nutritive che ne alterano l’equilibrio, mentre le coltivazioni sono protette da pesticidi e altri inquinanti.

Un ciclo che nel tempo ha mutato  irreversibilmente le condizioni del suolo dal punto di vista della fertilità e, oggi, la Pianura Padana è praticamente un deserto in cui, senza intervento dell’uomo, non potrebbe crescere nulla. Su questo tema c’è un rapporto molto dettagliato del IPCC (il panel internazionale che fa da consulente dei governi sul cambiamento climatico) e di cui potete trovare una breve sintesi in italiano, mentre il rapporto completo, in inglese, si scarica qui.

 

[1]  Karl Polanyi, famoso economista ed antropologo, già alla fine degli anni ’50 parlava della difficoltà della “libertà in una società complessa”: faceva riferimento allora, agli Stati Uniti, ma la globalizzazione si è ormai diffusa ovunque e, oggi, siamo tutti parte delle catene lunghe dell’economia mondializzata e, quindi, dell’ingiustizia diffusa che questa determina.

Il dilemma dell’onnivoro

Il dilemma cui fa riferimento il titolo è al centro di un bel libro di Michael Pollan, uscito in Italia più di dieci anni fa e che ebbe grande diffusione perché affrontava il problema di fondo del nostro sistema alimentare: le sue conseguenze sulla nostra salute e su quella del pianeta. Un dilemma che, nel nostro piccolo, abbiamo dovuto affrontare anche noi e che ci ha portato sì ad introdurre in Bottega carne, pesce e salumi, ma secondo criteri molto precisi: prodotti base, di filiera corta o cortissima e a produzione naturale.

Perché questa scelta? Proviamo a riassumerne brevemente le ragioni, che sono tante, tutte importanti e tutte da approfondire, perché l’alimentazione – soprattutto quella a base di carne – è responsabile di molti problemi, per noi e per il pianeta. Infatti, se è vero che le proteine animali sono presenti nell’alimentazione umana da moltissimo tempo è anche vero che sino a tempi molto recenti i prodotti di origine animale, a parte il latte, hanno sempre rappresentato un consumo occasionale, un lusso: erano il cibo della festa, dei pranzi importanti, il peccato di gola dei ricchi che, ovviamente, pagavano i loro eccessi con la gotta. Forse non lo sapete ma in Europa, almeno fino alla metà dell’800, i bovini erano per lo più allevati per il traino agricolo e solo l’urbanizzazione fece sì che, con l’inizio del ’900, l’allevamento per l’alimentazione (latte e carne) arrivasse a valere per circa la metà dell’intera produzione agricola.

I poveri comunque continuavano a mangiare per lo più legumi (la famosa dieta mediterranea) e solo con il secondo dopoguerra la carne è diventata un consumo “di massa”, grazie al boom economico e alla diffusione del potere d’acquisto nella classe operaia. I baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono stati cresciuti con il mito della fettina e, secondo la FAO, tra il 1970 e il 1990 il consumo mondiale di carne è cresciuto del 50%, anche grazie all’abbattimento dei costi legati all’allevamento industriale e, soprattutto, ai sussidi statali.

Quello che è accaduto in Italia lo potete vedere bene dal grafico qui a fianco – che analizza i consumi pro capite degli ultimi 150 anni – un aumento non è diverso da quello registrato negli altri paesi occidentali. Cui si è inoltre affiancata negli ultimi vent’anni la diffusione dell’uso della carne carne rossa in paesi come Cina e India, che hanno enormi potenziali di consumo (e quindi di ulteriore impatto ambientale).

Se vi interessa approfondire come si sono evolute le abitudini alimentari con l’industrializzazione potete leggere il Rapporto Coop Un secolo d’Italia e questo articolo che ricostruisce nel dettaglio come è cambiato nel tempo – purtroppo in peggio –  il nostro modo di mangiare. Inoltre potete anche guardare questo documentario, recentemente realizzato da RAI3.

Da tempo ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso del cibo e se i più poveri temono ancora la fame, nei paesi cosiddetti sviluppati si soffre di troppa abbondanza e il consumo eccessivo di carne porta a un maggior rischio di patologie quali cardiopatie, diabete e alcuni tipi di tumori.

Ma perché la carne è così dannosa? Per tanti motivi, primo fra tutti il fatto che oggi sul pianeta ci sono costantemente 25 miliardi di animali d’allevamento (circa 70 miliardi è il numero di quelli uccisi nel corso di un anno). Sono polli, maiali, bovini, ovini, conigli, tacchini cresciuti prevalentemente nei cosiddetti allevamenti intensivi. Gli animali, ammassati a migliaia in enormi capannoni e recinti, non vengono nutriti con erba o fieno ma con cereali e soia (spesso OGM), che ne accelerano l’aumento di peso. Questo porta a un dominio dalle monocolture per la produzione di mangimi, che rendono gli ecosistemi meno resilienti perché ne distruggono la biodiversità e richiedono metodi di coltivazione basati sull’uso di pesticidi e fertilizzanti di origine fossile. Insomma, l’agricoltura legata alla produzione della carne ha effetti ambientali devastanti.

Inoltre, a causa di come sono nutriti e delle cattive condizioni igieniche e di vita la maggior parte di questi animali, in particolare i bovini, ha gravi problemi di salute tenuti sotto controllo con gli antibiotici. Sostanze usate anche per accelerarne la crescita, in un uso smodato che ha determinato fenomeni di antibiotico-resistenza che stiamo già sperimentando sulla nostra salute.

Insomma, da qualsiasi parte lo si prenda il problema dell’iperconsumo di carne è una questione complessa e preoccupante: dobbiamo pensare seriamente come, da consumatori, si possa modificare i nostri consumi alimentari e fare scelte più giuste per l’ambiente, per la nostra salute e per una più equa distribuzione delle risorse.

Questo ci porta ad un altro aspetto del problema, quello economico: qual è il prezzo giusto della carne? A questo prova a rispondere uno studio di SlowFood che analizza i costi nascosti della carne, cioè le esternalità negative, innanzitutto economiche, che non paghiamo direttamente facendo la spesa ma in altre modalità.

Insomma, anche da questi pochi cenni ci sembra di poter dire che il dilemma dell’onnivoro possa avere una sola risposta: carne sì, se si vuole, ma meno, meglio e più vicino!

Una buona notizia: la riscoperta del cibo locale

 

Dopo essere diminuito per decenni, il numero delle piccole e piccolissime aziende agricole sta di nuovo aumentando: spesso sono gestite da giovani, che hanno scelto di tornare alla terra e impegnandosi per la qualità di quello che producono. Amano quello che fanno, ma hanno anche bisogno di guadagnarsi da vivere, mentre chi sceglie questo tipo di prodotti deve poterli avere a prezzi ragionevoli.

Per questo è nata la Bottega Volante, una prova di come si possa collaborare tra produttori, intermediari e acquirenti per portare i prodotti locali sulle tavole di chi abita il territorio. Un esperimento importante alla luce della profonda differenza che c’è tra il cibo prodotto localmente da piccoli produttori e quello industriale e che si può  riassumere in dieci punti:

  1. I prodotti sono più buoni. Frutta e verdura vengono raccolte quando sono mature e i trasformati lavorati artigianalmente e in piccole quantità. Poiché non devono essere conservati e trasportati a grandi distanze non devono essere “manipolati per sembrare perfetti” quando arrivano sul banco del supermercato. Comprando locale scopri varietà nuove o semplicemente dimenticati dalle grandi catene, e puoi apprezzare e il piacere di poter consumare nel momento migliore quello che la natura offre in ogni stagione.
  2. E sono anche più freschi. Se il passaggio dalla produzione al piatto è veloce, e i prodotti locali spesso sono acquistati entro 24 ore dalla raccolta, gli alimenti perdono meno sostanze nutritive e non hanno bisogno di essere trattati perché si conservino per giorni o settimane in celle frigorifere, come succede per i prodotti della grande distribuzione.
  3. I produttori preservano la biodiversità. Nel sistema agro-industriale vengono utilizzate solo quelle varietà che crescono rapidamente e in modo uniforme, resistono al raccolto e all’imballaggio meccanizzato e durano a lungo sugli scaffali. I piccoli produttori, al contrario, coltivano o allevano varietà e specie diverse per avere una stagione produttiva più lunga e preservare la ricchezza naturale dei terreni.
  4. Il cibo locale è sano. I produttori locali non sono fornitori distanti e anonimi e sono chiamati a rispondere direttamente ai loro consumatori. Un pomodoro maturato sulla pianta a pochi chilometri da casa tua è molto meglio per la tua salute di uno che arriva magari da 1.000 chilometri di distanza, è stato raccolto acerbo e poi fatto maturare in modo forzato.
  5. Comprare locale crea lavoro locale. Quando le grandi imprese dominano il mercato le aziende locali faticano a sopravvivere. Sostenerle vuol dire aiutare i piccoli produttori a sottrarsi alle politiche al ribasso dei grossisti e aiuta a diffondere pratiche produttive sostenibili che sono possibili solo a scala ridotta.
  6. E sostiene l’economia del territorio. Quando le aziende non appartengono al territorio, il denaro lascia la comunità ad ogni transazione: secondo uno studio della New Economics Foundation un euro speso in un’azienda locale tende a rimanere investito in loco, e genera un reddito doppio rispetto a quello dato a un’azienda che ha sede altrove.
  7. Il cibo locale ritesse la comunità. Quando acquisti localmente, ripristini la storica connessione tra chi produce e chi consuma. Sapere chi produce quello di cui ti nutri ti fa apprezzare il luogo in cui vivi e le persone che lo abitano. In molti casi, ti aiuta a ritrovare il contatto con la natura e ti motiva a difendere un bene comune fondamentale come il terreno agricolo.
  8. Aiuta a proteggere il territorio. Far sì che le aree agricole non siano abbandonate impedisce alle città di espandersi troppo e troppo velocemente, sottraendo la terra al controllo della comunità. Sostenere i fornitori locali è uno degli strumenti più immediati per difendere il territorio: se i produttori guadagnano abbastanza con la commercializzazione locale, è più difficile che accetino di vendere terreni agricoli per l’espansione urbanistica o alle agro-industrie.
  9. Non ha costi nascosti. Gli economisti le chiamano “esternalità negative” e sono tutti che quei costi che, come cittadini, paghiamo per la costruzione e manutenzione delle infrastrutture necessarie alle industrie per vendere in grandi quantità e a grande distanza. Le filiere corte richiedono meno servizi, quindi comprare localmente aiuta anche a diminuire le tasse!
  10. Mangiare locale difende l’ambiente. Le piccole fattorie garantiscono fondamentali servizi ecosistemici: conservano il suolo fertile, proteggono le fonti d’acqua e sequestrano il carbonio dall’atmosfera. L’ambiente agricolo è un mosaico di campi, prati, boschi, stagni che sono l’habitat per la fauna selvatica nelle nostre comunità. Poi, è ovvio, hanno un impatto minimo rispetto alle enormi agro-industrie monocolturali che usano pesticidi e fertilizzanti di origine fossile. Inoltre, le consegne chiedono meno carburante, generano meno gas serra e riducono gli sprechi legati al trasporto e allo stoccaggio.

E per finire, mangiare locale è un investimento per il futuro. Sostenendo gli agricoltori locali contribuisci a far sì che negli anni a venire ci siano ancora aziende agricole nella tua comunità. Un fatto fondamentale a fronte di un futuro energetico incerto, visto che ad oggi la nostra alimentazione dipende quasi interamente dai combustibili fossili necessari per produrre, confezionare, distribuire e conservare il cibo. Se non difendiamo la possibilità di nutrirci con quello che produce il nostro territorio, le generazioni future potrebbero essere davvero nei guai.

Terra Aut, la libertà di essere bio

La cassetta che ricevi quando fai un ordine in Bottega non contiene solo prodotti alimentari, ci sono anche più di 30 anni di impegno della cooperativa sociale Lo Scoiattolo e le storie dei ragazzi e delle ragazze che lavorano per confezionare quello che hai chiesto nonostante grandi problemi personali.

Ma c’è tanto di più, c’è la passione di piccole aziende familiari e cooperative che hanno scelto di fare impresa con pochi mezzi e in una realtà spesso difficili, che fermentano birre, coltivano terre o allevano pollame, c’è l’idea di un’economia che parte da logiche diverse e condivise per la quale ci impegniamo in prima persona.

Da oggi  trovi anche la prima produzione di passata di pomodoro  biologica del progetto Terra Aut della Cooperativa Sociale Altereco,  che recupera terreni confiscati alle mafie di Cerignola e porta con sé, di nuovo, una storia di coraggio: coltivare queste terre vuol dire mettersi personalmente in gioco e superare logiche omertose più comode e redditizie.

L’anno che viene, come quello che sta finendo, sarà difficile per tutti ma la difficoltà regala occasioni di riflessione e cambiamento, così abbiamo deciso di mettere nel piatto anche il coraggio di questi ragazzi o, come dicono loro, non solo pomodori biologici e buoni ma anche liberi e onesti.
È una piccolissima produzione, sono piccole bottiglie, non è fatta per essere acquistata in quantità ma basta condirci la pasta ogni tanto e condividerla raccontando la sua bella storia a chi siede con noi.

 

Se vuoi conoscere meglio chi produce la passata e perché viene prodotta così:

Pagina Facebook Cooperativa sociale Altereco

https://www.cerignolaviva.it/notizie/la-passata-di-pomodoro-biologica-di-altereco-al-sapore-dell-antimafia-sociale/

https://www.foggiatoday.it/attualita/il-profumo-della-liberta-terra-aut-cerignola.html

http://www.giovaniinnovatori.it/blog/terra-aut-lantimafia-parte-dal-lavoro/

Sovranità alimentare

Curare la terra per un futuro migliore

Sovranità alimentare
Image: Maja Petric UNSPLASH

 

Tornare alla terra è l’alternativa

di Vandana Shiva – Non c’è un “pianeta B”, piuttosto dobbiamo prenderci cura della casa comune nella giustizia ecologica, sociale ed economica. Così il ritorno alla Terra inizia nella nostra mente, liberandoci dalle illusioni che ci hanno spinto sull’orlo dell’estinzione. Leggi l’articolo Comune-info

 

La sfida dell’agroecologia alla fame

di Miguel Altieri – Un  biologico basato sulle monocolture e che dipende da costosi marchi di certificazione non favorisce i piccoli agricoltori. Ma anche i mercati di nicchia gli stessi problemi di ogni sistema agricolo che non dia priorità alla sovranità alimentare. Con l’agroecologia si produce più cibo con meno terra, si utilizza meno energia e meno acqua, e si abbassano le emissioni di gas serra. Leggi l’articolo e guarda il video a cura della Fondazione Feltrinelli

Per chi fosse interessato ad approfondire il tema qui trovate il libro sull’agroecologia dello stesso autore.

 

Cos’è la sovranità alimentare

A cura della CSA Arvaia (BO) – Possiamo definire con la Sovranità Alimentare il diritto di tutti i popoli (nelle forme politiche concrete che si danno) di decidere il proprio modello di produzione, distribuzione e consumo degli alimenti. Un diritto che non solo non nega gli scambi e le relazioni ma li definisce in un quadro di equità e solidarietà. Leggi il documento

 

Progetto per la sovranità alimentare

A cura di CampiAperti – Questo documento raccoglie una serie di proposte che hanno l’obiettivo di cambiare il sistema agroalimentare attuale, sempre più legato alle grandi catene agro-industriali. Vorremmo generare un’inversione di tendenza, necessaria per la salvezza del pianeta, e invitiamo realtà e i singoli che hanno a cuore lle reti alimentari contadine e l’economia solidale a contribuire al dibattito con analisi, critiche e proposte. Leggi il progetto

 

Chi ci nutrirà? Rapporto sullo stato dell’agricoltura nel mondo

  • Il 70% degli abitanti del mondo è nutrito dalla Rete alimentare contadina che dispone solo del 25% delle risorse (terra, acqua, combustibili fossili), mentre…
  • Per ogni dollaro che si paga per il cibo della Catena agroindustriale, c’è un costo di altri 2 dollari per danni ambientali e alla salute.
  • Il costo dei danni provocati dal cibo industriale è 5 volte la spesa mondiale in armamenti.

Ecco in traduzione italiana un opuscolo fondamentale prodotto dal Gruppo ETC che, con linguaggio semplice e comprensibile, confronta i diversi sistemi di produzione del cibo. Si trova qui