La prossima pandemia, la siccità

 

Di questo parla l’ultimo Global Assessment Report on Disaster Risk Reduction (il rapporto annuale dell’ONU che valuta il rischio globale di catastrofi), pubblicato il 17 giugno in occasione dell’ultima giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità e in cui la mancanza di acqua (e accesso all’acqua) vengono definite la peggiore crisi globale latente, la prossima pandemia.

Negli ultimi 20 anni, secondo i dati ONU, ha colpito direttamente almeno 1,5 miliardi di persone, con un costo stimato di 124 miliardi di dollari e si prevede che la maggior parte del mondo vivrà nello stress idrico nei prossimi anni (qui i dati più in dettaglio e qui il rapporto originale, disponibile solo in inglese). Non è  difficile immaginarne le conseguenze, se si pensa che la siccità incide in modo determinante sul declino dei raccolti. E tutti dipendiamo dal cibo, anche se in modi diversi a seconda di dove ci troviamo a nascere.

Ma non c’è solo questo, in un mondo globale tutto si tiene e non si può parlare di un problema senza vedere il contesto complesso in cui si inserisce, senza leggerne le dinamiche geopolitiche[1] e le interconnessioni. Quindi partiamo dalla siccità per parlare anche di guerre per le risorse, migranti e cambio climatico, salute del suolo e desertificazione dei nostri territori.

Le conseguenze immediate (e invisibili) della siccità.

UE, FAO e World Food Program ci hanno da poco informato che, nel 2020, almeno 155 milioni di persone sono precipitate nell’insicurezza alimentare acuta a causa di conflitti, shock economici (comprese le conseguenze del COVID-19) ed eventi meteorologici estremi (qui il comunicato). Ovviamente, nel pianeta globale le crisi colpiscono prima i più deboli: basta pensare al dramma dei migranti e dei rifugiati, una questione che dopo essere stata per anni ostaggio di un dibattito politico strumentale e vergognoso, è scivolata con la pandemia nell’indifferenza delle pagine interne dei quotidiani (con qualche eccezione come il Fatto Quotidiano che, nel blog, accoglie spesso voci critiche e temi complessi ignorati dalla narrazione mainsteam).

La questione dell’acqua (e delle risorse)

Questo è un altro aspetto del problema: già alla fine del secolo scorso, con la prima guerra dell’Iraq, era chiaro che le nuove guerre (dichiarate o meno) sarebbero diventate conflitti per le risorse e tra queste, ovviamente, è centrale il controllo dell’acqua, ma il problema è molto più ampio e peggiora continuamente. Se volete approfondire la questione del rapporto geopolitico tra guerra e materie prime potete leggere questi due articoli: il primo, dell’agenzia governativa per la cooperazione internazionale, è dedicato all’impatto delle guerre per l’acqua mentre il secondo, analizza le interconnessioni tra le crisi e in particolare quelle tra estrattivismo (l’appropriazione e lo sfruttamento sistematico di risorse sempre più scarse), la crisi alimentare e il cambiamento climatico.

Ma non è tutto, in Italia l’acqua è stata la base per una mobilitazione e una richiesta di partecipazione e giustizia non diverse da quelle che avevano segnato, nel 2003, l’opposizione alla seconda invasione dell’Iraq. L’acqua come bene comune, come diritto di tutti da difendere e conservare anche per le future generazioni è stata un vero movimento dal basso, con cui molti giovani si sono affacciati alla politica attiva e molti adulti ci sono tornati. Un referendum vinto, il primo di un processo che aveva l’obiettivo di legare politicamente le mani alle multinazionali e al loro sfruttamento metodico del pianeta. Purtroppo, speranze disattese e voci inascoltate, come quelle arcobaleno che in piazza, 10 anni prima, avevano inutilmente chiesto a gran forza la pace e, sempre sul Fatto Quotidiano della scorsa settimana, un interessante articolo ci racconta dove siamo a dieci anni dalla domenica in cui abbiamo festeggiato la vittoria del movimento per l’acqua pubblica.

La desertificazione, anche in casa nostra.

Già tre anni fa, in un’intervista in occasione della giornata mondiale del 2018, Luca Mercalli ci ricordava che l’Italia è a rischio desertificazione: la Pianura Padana potrebbe diventare come il Pakistan e la Sicilia un deserto africano da qui a cento anni, se non si applicano gli impegni dell’Accordo sul clima. “La temperatura globale – spiegava Mercalli – è aumentata di circa un grado nell’ultimo secolo e di 1,5 gradi in Europa occidentale e nel Mediterraneo. L’aumento delle temperature entro la fine del secolo potrebbe arrivare fino a 5 gradi in più”. La buona notizia, ci diceva, è che “possiamo ancora contenerne le conseguenze se agiamo subito” e, curiosamente, concludeva che “non sarà facile come assumere un vaccino, ma è come mettersi a dieta: serve un investimento di responsabilità, costanza e volontà”. Ovviamente non si sta facendo molto e il Covid, sempre lui ☹, ha fatto passare sullo sfondo anche la questione climatica, che sembrava aver finalmente risvegliato l’attenzione pubblica.

Non solo caldo o mancanza d’acqua, ma di vita nel suolo.

Attenzione però, desertificazione non significa solo alla siccità o aumento delle temperature medie ma a un processo più complesso, legato ai metodi agricoli industriali: da decenni ormai per coltivare si libera il territorio da piante, insetti, animali, si irreggimentano i corsi d’acqua, si sfrutta il terreno. Che deve essere continuamente arricchito di sostanze nutritive che ne alterano l’equilibrio, mentre le coltivazioni sono protette da pesticidi e altri inquinanti.

Un ciclo che nel tempo ha mutato  irreversibilmente le condizioni del suolo dal punto di vista della fertilità e, oggi, la Pianura Padana è praticamente un deserto in cui, senza intervento dell’uomo, non potrebbe crescere nulla. Su questo tema c’è un rapporto molto dettagliato del IPCC (il panel internazionale che fa da consulente dei governi sul cambiamento climatico) e di cui potete trovare una breve sintesi in italiano, mentre il rapporto completo, in inglese, si scarica qui.

 

[1]  Karl Polanyi, famoso economista ed antropologo, già alla fine degli anni ’50 parlava della difficoltà della “libertà in una società complessa”: faceva riferimento allora, agli Stati Uniti, ma la globalizzazione si è ormai diffusa ovunque e, oggi, siamo tutti parte delle catene lunghe dell’economia mondializzata e, quindi, dell’ingiustizia diffusa che questa determina.

Il dilemma dell’onnivoro

Il dilemma cui fa riferimento il titolo è al centro di un bel libro di Michael Pollan, uscito in Italia più di dieci anni fa e che ebbe grande diffusione perché affrontava il problema di fondo del nostro sistema alimentare: le sue conseguenze sulla nostra salute e su quella del pianeta. Un dilemma che, nel nostro piccolo, abbiamo dovuto affrontare anche noi e che ci ha portato sì ad introdurre in Bottega carne, pesce e salumi, ma secondo criteri molto precisi: prodotti base, di filiera corta o cortissima e a produzione naturale.

Perché questa scelta? Proviamo a riassumerne brevemente le ragioni, che sono tante, tutte importanti e tutte da approfondire, perché l’alimentazione – soprattutto quella a base di carne – è responsabile di molti problemi, per noi e per il pianeta. Infatti, se è vero che le proteine animali sono presenti nell’alimentazione umana da moltissimo tempo è anche vero che sino a tempi molto recenti i prodotti di origine animale, a parte il latte, hanno sempre rappresentato un consumo occasionale, un lusso: erano il cibo della festa, dei pranzi importanti, il peccato di gola dei ricchi che, ovviamente, pagavano i loro eccessi con la gotta. Forse non lo sapete ma in Europa, almeno fino alla metà dell’800, i bovini erano per lo più allevati per il traino agricolo e solo l’urbanizzazione fece sì che, con l’inizio del ’900, l’allevamento per l’alimentazione (latte e carne) arrivasse a valere per circa la metà dell’intera produzione agricola.

I poveri comunque continuavano a mangiare per lo più legumi (la famosa dieta mediterranea) e solo con il secondo dopoguerra la carne è diventata un consumo “di massa”, grazie al boom economico e alla diffusione del potere d’acquisto nella classe operaia. I baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono stati cresciuti con il mito della fettina e, secondo la FAO, tra il 1970 e il 1990 il consumo mondiale di carne è cresciuto del 50%, anche grazie all’abbattimento dei costi legati all’allevamento industriale e, soprattutto, ai sussidi statali.

Quello che è accaduto in Italia lo potete vedere bene dal grafico qui a fianco – che analizza i consumi pro capite degli ultimi 150 anni – un aumento non è diverso da quello registrato negli altri paesi occidentali. Cui si è inoltre affiancata negli ultimi vent’anni la diffusione dell’uso della carne carne rossa in paesi come Cina e India, che hanno enormi potenziali di consumo (e quindi di ulteriore impatto ambientale).

Se vi interessa approfondire come si sono evolute le abitudini alimentari con l’industrializzazione potete leggere il Rapporto Coop Un secolo d’Italia e questo articolo che ricostruisce nel dettaglio come è cambiato nel tempo – purtroppo in peggio –  il nostro modo di mangiare. Inoltre potete anche guardare questo documentario, recentemente realizzato da RAI3.

Da tempo ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso del cibo e se i più poveri temono ancora la fame, nei paesi cosiddetti sviluppati si soffre di troppa abbondanza e il consumo eccessivo di carne porta a un maggior rischio di patologie quali cardiopatie, diabete e alcuni tipi di tumori.

Ma perché la carne è così dannosa? Per tanti motivi, primo fra tutti il fatto che oggi sul pianeta ci sono costantemente 25 miliardi di animali d’allevamento (circa 70 miliardi è il numero di quelli uccisi nel corso di un anno). Sono polli, maiali, bovini, ovini, conigli, tacchini cresciuti prevalentemente nei cosiddetti allevamenti intensivi. Gli animali, ammassati a migliaia in enormi capannoni e recinti, non vengono nutriti con erba o fieno ma con cereali e soia (spesso OGM), che ne accelerano l’aumento di peso. Questo porta a un dominio dalle monocolture per la produzione di mangimi, che rendono gli ecosistemi meno resilienti perché ne distruggono la biodiversità e richiedono metodi di coltivazione basati sull’uso di pesticidi e fertilizzanti di origine fossile. Insomma, l’agricoltura legata alla produzione della carne ha effetti ambientali devastanti.

Inoltre, a causa di come sono nutriti e delle cattive condizioni igieniche e di vita la maggior parte di questi animali, in particolare i bovini, ha gravi problemi di salute tenuti sotto controllo con gli antibiotici. Sostanze usate anche per accelerarne la crescita, in un uso smodato che ha determinato fenomeni di antibiotico-resistenza che stiamo già sperimentando sulla nostra salute.

Insomma, da qualsiasi parte lo si prenda il problema dell’iperconsumo di carne è una questione complessa e preoccupante: dobbiamo pensare seriamente come, da consumatori, si possa modificare i nostri consumi alimentari e fare scelte più giuste per l’ambiente, per la nostra salute e per una più equa distribuzione delle risorse.

Questo ci porta ad un altro aspetto del problema, quello economico: qual è il prezzo giusto della carne? A questo prova a rispondere uno studio di SlowFood che analizza i costi nascosti della carne, cioè le esternalità negative, innanzitutto economiche, che non paghiamo direttamente facendo la spesa ma in altre modalità.

Insomma, anche da questi pochi cenni ci sembra di poter dire che il dilemma dell’onnivoro possa avere una sola risposta: carne sì, se si vuole, ma meno, meglio e più vicino!