Curare territorio e comunità

Una società in salute costruisce ogni giorno una coesione sociale che viene prima degli interessi economici e finanziari e  promuove la cultura della cura dello spazio pubblico in ogni contesto territoriale. Una società che favorisce la gestione democratica dei beni collettive e mette al centro la sostenibilità ambientale e sociale. Il concetto di cura può diventare un progetto politico e deve indirizzare ogni processo economico verso una vera sostenibilità ambientale e sociale.
di Paolo Piacentini

È possibile trasformare in progetto politico il concetto di cura nell’abitare un territorio? Cura di se stessi, degli altri, della comunità, dell’ambiente. Cura come costruzione di salute globale. Non può esistere un sistema in salute se alla base non si pone il principio fondamentale della cura. Del profondo valore culturale e politico di questo sostantivo  forse troppo abusato ma pochissimo praticato, dovremmo avere maggiore consapevolezza.

Dare centralità alla cura quotidiana delle cose come presupposto che dà senso al nostro essere al mondo è la più grande rivoluzione possibile: se la mattina non vado nell’orto a curare la crescita delle piante non avrò i frutti desiderati, allo stesso modo non posso assaporare il buon vivere in un mondo migliore se non inizio a coltivare, davvero, un rapporto nuovo con me stesso e con l’ambiente che mi circonda, diventando protagonista di cambiamento che desidero.

Far restare il concetto di cura solo nella dimensione personale, senza  trasferirlo al senso di appartenenza a una comunità e al territorio che la ospita, vuol dire rinunciare a quella trasformazione profonda di cui avremmo bisogno per vivere in salute. Partiamo dalla nostra casa, proviamo a sentirla solo come un angolo piccolissimo ed intimo della nostra esistenza quotidiana. Uno spazio vitale in cui raccoglierci nel corpo e nello spirito, in cui coltivare la dimensione più riservata e meditativa una sorta di eremo in cui rifugiarsi senza pensarlo però, parafrasando Adriana Zarri, come un guscio di lumaca.

La casa vista solo come una piccola parte del nostro essere abitanti del mondo. Abitiamo un luogo se entriamo in relazione con esso, se interagiamo da cittadini attivi, se ne riconosciamo i segni. Non basta vivere fisicamente in un determinato territorio, urbano o di campagna che sia, per essere un vero abitante. Si abita interagendo, riscoprendo un senso di appartenenza, altrimenti rimaniamo forestieri in casa. Abitiamo se vicoli, strade, piazze, giardini, parchi, campagne, fiumi, valli, pendii, boschi, crinali ed ogni parte del paesaggio in cui siamo ospiti, suscitano in noi desiderio di conoscenza e di cura. Non ha senso racchiuderci dentro le mura di casa per sentirsi protetti da una realtà esterna che invece dovremmo abbracciare come fosse il prolungamento della nostra esistenza.

Se abbandono una casa, un campo, un bosco e non me ne prendo cura per anni, se la casa cade a pezzi, se i campi un tempo coltivati si riempiono di rovi, è giusto conservare il diritto di proprietà? La proprietà di un bene dovrebbe presupporre il principio della cura. Non si tratta di praticare l’esproprio indiscriminato ma di riportare nella res pubblica il principio universale di un corretto uso dei beni comuni. Le nostre città, le nostre campagne ed aree interne sono disseminate di edifici in abbandono, di terreni incolti, di boschi non curati. Se la cura diventa il faro di un progetto politico locale e globale l’abbandono di un bene, privato o pubblico che sia, non è più accettabile, soprattutto se l’incuria va a danno della collettività.

Cura della persona, delle comunità, dell’ambiente e del territorio sono il presupposto fondamentale per la costruzione di una società più giusta. Se permangono diseguaglianze diffuse nell’accesso ai servizi, se non creiamo le condizioni per una vita più “salubre” capace di determinare un diffuso benessere individuale e collettivo, nel giusto equilibrio tra bisogni materiali e spirituali, non riusciremo ad uscire da quella “normalità” malata denunciata da Papa Francesco nell’indimenticabile Piazza San Pietro vuota di persone ma carica di energia.

Questa fase  COVID è il momento giusto per proporre questa grande rivoluzione copernicana: cura e salute come binomio inscindibile. La crisi sanitaria ha mostrato la necessità di essere uniti nell’affrontare le grandi emergenze, ma anche che la disarticolazione dello Stato a beneficio della frammentazione delle politiche locali e delle privatizzazioni non può garantire la costruzione di una società in salute.

Secondo l’OMS la salute non è semplice assenza di malattia ma una situazione di benessere generale delle persone e delle comunità. Una società in salute è quella che si sforza di costruire ogni giorno una coesione sociale che viene prima degli interessi economici e finanziari, che promuove la cultura della cura dello spazio pubblico in ogni contesto territoriale. Una società che favorisce la gestione democratica dei beni collettivi, che mette al centro la sostenibilità ambientale e sociale e ai cui valori le dinamiche economiche devono adeguarsi e non viceversa. Credo che il concetto di cura possa diventare un progetto politico per indirizzare tutti i processi economici verso una vera sostenibilità ambientale e sociale. Solo così si costruisce il “buon vivere” in un mondo migliore.